La pianta di olivo (Oleaeuropea), con l’abbassamento delle temperature e l’arrivo del clima autunnale, è maggiormente soggetto agli attacchi fungini.
Il ciclo di questi organismi è rappresentato da quattro fasi principali, strettamente collegate alle condizioni ambientali e climatiche.
Generalmente si possono distinguere due fasi attive, in primavera ed autunno, e due fasi di ridotta virulenza, in inverno e in estate; in particolare relativamente a queste ultime due si può definire la fase invernale come periodo di riposo e quella estiva come periodo di latenza.
Due dei principali patogeni fungini dell’olivo sono la lebbra, Colletotrichumspp.,e l’occhio di pavone, Spilocaeaoleaginea.
La lebbra provoca danni evidenti ai frutti, come descritto nell’articolo precedente “La lebbra o antracnosi dell’olivo”, in questo articolo verrà descritto l’occhio di pavone responsabile invece dei maggiori danni alle foglie e al sistema linfatico.
L’agente dell’occhio di pavone dell’olivo fu individuato per la prima volta a Marsiglia nel 1845 da Castagne che lo riportò come Cycloconium oleaginum Cast.
In Italia, le prime segnalazioni si hanno nel 1891, anche se il cicloconio era già presente nel 1830. Hughes nel 1953 trasferì la specie dal genere Cycloconium Cast. al genere Spilocaea Fries come Spilocaea oleagina ( Cast.) Hugh.
Come agisce l’Occhio di Pavone sull’olivo?
Si possono distinguere due fasi di sviluppo del fungo: fase di infezione e fase di incubazione.
La prima viene attivata dalle condizioni climatiche favorevoli e rappresenta l’attacco primario; l’incubazione è il periodo che intercorre tra l’infezione e la comparsa dei sintomi.
Durante l’inverno i funghi rimangono in fase di riposo, così come le piante, in attesa di condizioni climatiche favorevoli. L’occhio di pavone rimane latente anche per lunghi periodi nello strato più esterno dell’epidermide delle foglie, svernando come tale.
In regioni con temperature miti possono presentarsi stagioni in cui il fungo riduce il suo periodo di riposo.
I conidi vengono trasportati da vento e pioggia e germinano entro le 48 ore successive.
In condizioni di umidità e temperatura ottimali, prevalentemente in primavera e autunno, la malattia si sviluppa a carico del tessuto fogliare, determinando la formazione di colonie sottocuticolari.
In particolare, durante la primavera con temperature comprese tra i 16 e i 22 °C, elevata umidità relativa e prolungata bagnatura fogliare, si manifestano le migliori condizioni per la germinazione dei conidi.
In seguito, il micelio si sviluppa all’interno dell’epidermide per evadere sulla pagina superiore come macchie rotondeggianti grigio-brunastre e poi con un alone giallo; tale conformazione è detta ad occhiodipavone per la somiglianza con la porzione terminale delle piume di pavone; tali macchie tendono a necrotizzare nel tempo.
Il ciclo primaverile è molto lungo, la durata dell’incubazione può variare molto e può manifestare i sintomi anche a distanza di uno o più mesi. Di contro nei climi mediterranei sono stati osservati anche periodi di incubazione di sole due settimane.
Questo fungo riduce il suo potenziale infettivo nei mesi estivi e già sopra ai 25 °C entra in una fase di latenza.
In autunno riattiva il suo ciclo infettivo, l’inoculo principale è rappresentato dalle foglie. In questa stagione i periodi di incubazione sono molto più brevi, circa 15-20 giorni, e i sintomi si manifestano con macchie di minor diametro anche sulle foglie più piccole.
Danni e difesa dall’Occhio di Pavone
Il danno più grave è quello a carico delle foglie. La prematura filloptosi (caduta delle foglie) può verificarsi anche prima della completa manifestazione delle macchie fogliari ad “occhio di pavone”.
La caduta delle foglie può compromettere la successiva evoluzione delle gemme ascellari, riducendo così la produzione di rami a frutto con conseguente riduzione della produzione dell’anno successivo.
Può attaccare i peduncoli, quindi i frutti che presenteranno delle depressioni necrotiche brunastre.
Ciò incide negativamente anche sull’induzione a fiore delle gemme influenzando una minore differenziazione a fiore per l’anno successivo. In seguito a ripetuti attacchi di S.oleaginea può verificarsi un indebolimento della pianta con il disseccamento di parte dei rami.
Tali danni non risultano eccessivamente limitanti a livello produttivo ma possono esserlo in termini qualitativi.
Esistono diversi interventi agronomici funzionali alla riduzione degli inoculi del patogeno:
- Una buona aerazione della chioma che riduce l’umidità interna alla stessa
- Utilizzo di cultivar poco suscettibili, come Nociara, Pendolino e Leccino
- Riduzione dell’umidità: sesti d’impianto ampi e corretto deflusso delle acque, evitando ristagni.
Per quanto riguarda i trattamenti, solitamente a base di rame (ossicloruro di rame, idrossido di rame o solfato di rame e poltiglia bordolese), vengono effettuati sul finire dell’inverno o comunque prima della ripresa vegetativa. Da evitare trattamenti troppo anticipati che potrebbero risultare inefficaci.
Un altro trattamento è utile in prefioritura o in mignolatura, evitare interventi troppo tardivi per non incorrere in fenomeni di fitotossicità. Questi trattamenti provocano filloptosi con riduzione del potenziale fotosintetico.
In anni di carica è possibile utilizzare la dodina, che limita la filloptosi mantenendo le foglie per un miglior assorbimento di luce.
In autunno si può eseguire un terzo trattamento per scongiurare le infezioni autunnali che daranno origine agli inoculi funzionali allo svernamento.
Infine, sono in commercio prodotti come strobilurine, trifloxistrobin (in associazione a tebuconazolo) e pyraclostrobin che, utilizzate in pre-fioritura, concorrono al contenimento dei danni da lebbra.
Grazie ai sistemi di supporto alle decisioni, come il servizio di Elaisian, è possibile anticipare gli attacchi fino a 10 giorni riducendo drasticamente il numero di interventi, valutando esclusivamente quelli necessari e riducendo anche i costi relativi a prodotti e manodopera.
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Fonti:
2) www.lanaturaticura.wordpress.com
3) www.agricultura.it